Cinema

IRISH FILM FESTA 2022 – L’anteprima italiana di “Wolf” divide il pubblico

È terminata da poche ore la seconda giornata dell’edizione estiva dell’IRISH FILM FESTA 2022 e l’Arena Ettore Scola della Casa del Cinema di Villa Borghese è stata teatro della prima delle quattro premiazioni per i cortometraggi vincitori del concorso indetto nella prima parte della rassegna nel maggio scorso.
Il primo riconoscimento è stato consegnato ai registi di An Irish Goodbye (in basso, NdA), il duo anglo-nordirlandese composto da Tom Berkeley e Ross White che a maggio vinse il premio per il miglior cortometraggio nella categoria drammatica.

An Irish Goodbye, di Tom Berkeley e Ross White (Irlanda del Nord, 2021)
Fonte immagine : Floodlight Pictures / Facebook

A seguire, l’evento più ambito della serata che ha portato l’arena a essere riempita quasi del tutto dagli spettatori: l’anteprima nazionale del lungometraggio Wolf , una produzione internazionale dello scorso anno che ha usufruito della sua distribuzione globale da parte di grandi colossi cinematografici, con un cast di prim’ordine e – soprattutto – una piccola parte del nostro Paese nell’Isola di Smeraldo grazie alla regia dell’italiana Nathalie Biancheri.

Una serata che ha visto una grande affluenza di pubblico accorso per la pellicola in proiezione, con i posti quasi del tutto esauriti . Uno scenario che quindi apparrebbe di per sé del tutto normale , se non fosse che il lungometraggio ha diviso il giudizio del pubblico presente, tra gli applausi e le urla di gioia e i volti titubanti, interdetti o addirittura profondamente critici.

I registi Tom Berkeley e Ross White ricevono il Premio per il Miglior Cortometraggio nella categoria “Drama” per “An Irish Goodbye” (Irlanda del Nord,2021).
Presente sul palco anche la direttrice artistica della FESTA, Susanna Pellis.

Un po’ d’Italia nell’Isola di Smeraldo non basta a salvare “Wolf

La regista Nathalie Biancheri introduce la pellicola “Wolf” insieme a Susanna Pellis.

Seconda pellicola diretta dalla regista italiana Nathalie Biancheri, che da anni lavora attivamente tra Dublino e Londra, Wolf rappresenta la sua affermazione nella cinematografia internazionale dopo l’esordio alla regia con Nocturnal (2019), in una produzione internazionale finanziata da enti irlandesi e polacchi.
Diretto e girato interamente in Irlanda (è stato il primo film a essere girato nel Paese durante la pandemia di COVID-19, con condizioni molto rigide per la tutela della salute e della sicurezza di staff ed attori) e distribuito a livello internazionale dalla Universal, arriva alla première italiana dopo essere stato presentato lo scorso anno al Toronto Film Festival.
Il lavoro della regista ha visto coinvolto un cast di primissimo ordine, con attori e attrici di grande fama e capacità recitative quali George MacKay (Pride, Captain Fantastic, ma soprattutto la magistrale interpretazione nel film 1917 di Sam Mendes) e la figlia di Johnny Depp e Vanessa Paradis, Lily-Rose Depp.
Assieme ai due attori, anche grandi nomi nel panorama cinematografico irlandese e nordirlandese come Martin McCann e Fionn O’Shea, entrambi molto noti al pubblico dell’IRISH FILM FESTA per la loro presenza nelle precedenti edizioni della rassegna.

Eppure, nonostante le premesse degne di menzione e le conseguenti aspettative che poteva portare un film di questo tipo, a distanza di ore dal termine della proiezione risulta alquanto difficile trovare un elemento da poter apprezzare o giudicare positivamente: non bastano infatti le performances attoriali del cast, con cui si è cercato di mantenere una direzione e dare un senso ad un lavoro decisamente troppo denso e articolato nella sua complessità tematica e narrativa.
A prevalere su tutto, è infatti un lavoro caotico e poco scorrevole nei tempi (il che risulta paradossale, pensando alla durata della pellicola di un’ora e mezza circa).
Un insieme di tematiche e di elementi della sceneggiatura, a metà tra il metaforico e il simbolico, che però non trovano collegamenti solidi e, in alcuni passaggi, si ritrovano ad essere sconnesse con il percorso narrativo del film.

Il soggetto della storia ha come punto di partenza il campo della c.d. disforia di specie (og. species dysphoria), ovvero quella condizione psicologica per la quale un essere umano non si riconosce nel proprio corpo e nella propria specie, ricollegandosi invece a altre specie del mondo animale.

La disforia di specie, di cui si trova menzione per la prima volta a partire dagli anni ’90, risulta ancora oggi oggetto di studio e – in alcuni casi – di controversia nel mondo accademico (sia dal punto di vista clinico che da quello psicologico) e in quello socio-culturale. Gli studi sull’argomento, come ha avuto modo di dichiarare la stessa Biancheri durante il dibattito post-proiezione, hanno incuriosito la regista italiana che ha voluto intervistare vari gruppi di persone per approfondire sulla tematica prima dello sviluppo della sceneggiatura.


Disforia di specie, controllo e seduzione animale – La trama della pellicola

Wolf di Nathalie Biancheri (Irlanda, Polonia, 2021) Fonte immagine: Wolf / Facebook

La pellicola inizia con una serie di inquadrature riprese in mezzo alla natura, tra i boschi. Immerso tra gli alberi e le piante, un uomo – di cui in seguito si scoprirà che si chiama Jacob (George MacKay) – si muove nella sua “forma primordiale”, credendo di essere un lupo. Le inquadrature, in questo caso, si susseguono in rapida successione (alle volte sfocate, alle altre dettagliate), come per “giocare” con lo spettatore nel mostrare o nascondere la possente fisicità del corpo dell’attore mentre si muove e divincola nella terra oppure mentre cerca di fiutare tracce tra le piante.

D’improvviso, un cambio di scena ci porta al momento del congedo del protagonista dai suoi genitori, all’entrata di una imponente struttura dove Jacob andrà a trascorrere un periodo di tempo di lì in avanti.
Una struttura che si scopre essere un istituto sanitario, un centro di rieducazione per soggetti affetti dalla disforia di specie: Jacob, infatti, non è il solo individuo ospite della struttura, ma vi incontra altre persone tra le quali Rufus/Pastore Tedesco (Fionn O’Shea), Judith/Pappagallo (Lola Petticrew), Annalisa/Panda (Karise Yansen) e Jeremy/Scoiattolo (Darragh Shannon).
I personaggi elencati sono soltanto alcuni tra i vari pazienti che credono di essere cavalli, pesci, ragni e altri esseri del mondo animale, i quali cercano di riacquistare la propria condizione umana e – di conseguenza – il proprio reinserimento sociale all’interno della struttura.

I pazienti seguono un lungo percorso di rieducazione, recupero e controllo della propria identità umana, seguiti dalla dottoressa Angeli (Eileen Walsh) e dal dottor Mann, “il guardiano dello zoo” (Paddy Considine). In questo percorso, la contrapposizione tra i due medici si mostra ben presto evidente: ai metodi persuasivi e comprensivi della Angeli infatti, si sovrappone la brutalità glaciale e determinata del dottor Mann, che non esita a imporsi con la forza bruta nei confronti dei presunti animali, in quella che da questi viene considerata una mera illusione autoindotta e una messinscena dalla quale intende farli uscire.

La permanenza per Jacob all’interno della struttura si rivela alquanto difficile da dover sopportare, dal momento che nel personaggio si sviluppa quello che appare come un conflitto interiore tra le sue due anime.
Un conflitto che viene brutalmente interrotto dal dottor Mann alla lettura del suo diario personale, strumento dato a ogni paziente della struttura nel quale registrare e trascrivere le sensazioni più profonde percepite riguardo alla propria condizione.
Una spaccatura nel processo di recupero del personaggio che lo porta a un’inevitabile regressione verso la propria natura animale.

Durante una delle notti che Jacob trascorre muovendosi a quattro zampe nella struttura incontra un personaggio fino a quel momento mai entrato concretamente in scena: mentre cerca di ululare alla luna dalla sala cucine, appare infatti una donna dalle movenze feline, l’enigmatica Cecile (interpretata da Lily-Rose Depp).
L’incontro tra Jacob e Celine inserisce il terzo tema narrativo del film (dopo la disforia di specie e il controllo), ovvero quello dell’amore e della seduzione portata al suo livello più semplice, istintivo e animale.
Ma è anche un evento che si inserisce in un contesto che degenera violentemente nello stesso modo in cui il protagonista si avvicina verso la propria “identità di lupo”: tale regressione infatti innescherà una serie di veementi reazioni da parte del dottor Mann che andranno poi a confluire in una “catarsi rivelatoria” verso la conclusione della pellicola.


I (tanti) problemi della pellicola

La proiezione della pellicola è stata accolta alla fine con una reazione altalenante del pubblico: se un’ampia parte degli spettatori ha infatti applaudito con grande entusiasmo al lavoro della regista Biancheri e ne ha apprezzato il risultato finale con grida di elogio, c’è stata anche un’altra parte, come si è notato in seguito durante il dibattito post-proiezione, che ha cercato di trovare un senso all’opera seguita fino a quel momento, anche ponendo alcune osservazioni alla regista sul significato recondito
della pellicola.

In effetti, come anche indicato in precedenza, Wolf appare decisamente stratificato in vari livelli di comprensione e sviluppo del filone narrativo, al punto da renderne molto ardua la comprensione a uno spettatore terzo.
Inoltre, Wolf riesce nel non invidiabile primato di ampliare la percezione della durata della pellicola rispetto a quella effettiva, a causa di un’eccessiva dilatazione dei tempi nelle scene e nei dialoghi, ricchi in molti punti di silenzi che contribuiscono a rendere meno scorrevole il racconto cinematografico.

L’estetica della pellicola , in aggiunta, non aiuta e purtroppo conferma lo scarso entusiasmo circa il giudizio finale: in questo senso, va detto come le parole della stessa regista siano state un valido aiuto per comprendere i motivi dietro a una scelta che reputo poco lieta, menzionando i richiami e gli spunti d’ispirazione legati alla filmografia sovietica e a quella polacca.
Il ruolo fondamentale che assume l’oscurità nelle riprese e nelle inquadrature che raccontano la storia di Wolf, assieme alla ricerca dell’essenziale che si traduce in un approccio decisamente minimalista alla pellicola, contribuiscono non solo ad appesantire lo stesso sviluppo della storia agli occhi dello spettatore ma a scaturire in questi un profondo senso di angoscia che diventa sempre più incalzante con il passare del tempo.

Anche le scelte nel linguaggio cinematografico lasciano in alcuni casi interdetti: per esempio, la lunga sequenza che vede Jacob e Cecile approcciarsi nel rituale della seduzione (da intendersi sempre nella chiave di lettura della storia, ovvero in un contesto tra animali), dove l’energia primordiale e la fisicità dei corpi dei due personaggi/animali viene in alcuni momenti messa in secondo piano o addirittura “coperta”, come se ci fosse una sorta di barriera insormontabile, rispetto al focus sulla sensazione di prigionia e di reclusione, reso manifesto dalla cella e sue sbarre metalliche, luogo nel quale il protagonista si ritrova recluso, immobilizzato e imbavagliato. Una cella che al contempo però diventa teatro di un’altra sequenza dove invece la sessualità diventa elemento protagonista dell’immagine ma in un contesto decisamente borderline.

Un’apparente confusione quindi che si nota in tutto lo sviluppo della storia di Wolf, dove il cast – nonostante l’immenso impegno profuso nell’immedesimazione verso i personaggi e verso il tema principale della disforia di specie (la regista si è avvalsa dell’ausilio di uno specialista del linguaggio del corpo), non riesce a riequilibrare le sorti della pellicola, con dei personaggi abbozzati nel loro sviluppo e – salvo pochissime eccezioni (George McKay tra queste) ridotte inconsapevolmente a degli elementi di contorno.

Da ultimo la confusione si nota anche in alcune intuizioni mal concretizzatesi (per esempio, la scelta di inserire il brano Gloria di Umberto Tozzi nella scena di tortura), e nel finale “a sorpresa” della pellicola che lascia del tutto spiazzati rispetto allo sviluppo della storia.

In conclusione, Wolf rappresenta un’opera che richiede un’importante dose d’attenzione allo spettatore, che rischia di non essere compresa e apprezzata da tutto il pubblico. Un’opera che risulta, anche nella sua esecuzione, ricca di temi e spunti non pienamente sviluppati e il cui esito finale mostra un quadro alquanto confusionario.

L’Arena Ettore Scola della Casa del Cinema di Villa Borghese, riempita quasi del tutto dal pubblico.

Informazioni sull'autore

Nato a Roma nel 1992, è uno studente laureando nel corso di Laurea Magistrale in Relazioni Internazionali presso l'Università "La Sapienza" di Roma.

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Dopo la laurea triennale in Scienze Politiche e Relazioni Internazionali conseguita nel 2015, nel 2017 torna a scrivere in un progetto editoriale nazionale che lo vede ancora oggi coinvolto. Infine, dopo un'ulteriore esperienza triennale in un progetto associativo nel quale ha avuto modo di organizzare da remoto numerosi eventi e conferenze dedicate all'approfondimento del mondo della geopolitica, contribuisce alla fondazione del progetto portato avanti da ReAct360.

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