Cucina

Alla scoperta dei sapori dell’Abruzzo con lo chef Donato Di Nunzio

In occasione del recente centenario del Parco Nazionale d’Abruzzo, Lazio e Molise (inaugurato il 9 settembre del 1922), l’Associazione Culturale ReAct360 si è avventurata tra le alte montagne e le sconfinate foreste dell’Appennino centrale per riscoprire la storia, i costumi e la cucina del territorio abruzzese.

A catalizzare l’attenzione durante l’importante ricorrenza è stato un piccolo borgo che ogni anno accoglie centinaia di turisti provenienti da tutta Italia e non solo: Villetta Barrea.


Villetta Barrea, “Il Borgo tra i cervi” – Un breve identikit

Villetta Barrea vista dal Lago di Barrea.
Fonte immagine: Asia (opera propria) / Wikimedia Commons (CC BY-SA 4.0)

Circondata dal complesso montuoso dei monti Marsicani, Villetta Barrea è un piccolo comune che si è guadagnato l’appellativo di “borgo tra i cervi” tra gli abitanti per via delle numerose specie animali che vivono nel territorio circostante e che si avvicinano con molta confidenza ai residenti del luogo.
Attraversato dal fiume Sangro, che termina il proprio corso nel lago artificiale di Barrea, il luogo è caratterizzato da una flora rigogliosa, composta per la maggior parte dai pini neri ma anche da un altro protagonista di rilievo a livello geografico e naturalistico: il Faggio del Pontone, una pianta secolare le cui radici si trovano e affondano nel territorio di Villetta Barrea la cui imponente grandezza l’ha portata a essere inserita nell’Elenco degli Alberi Monumentali d’Italia del Ministero delle politiche agricole alimentari e forestali.

Tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del secolo scorso, Villetta Barrea è stata una delle principali tappe di riferimento per i pastori transumanti che percorrevano i vecchi tratturi – modellati in tempi antichi dai Sanniti e in seguito anche dai Romani – tra la Puglia e l’Abruzzo.
Il forte legame creatosi nel corso dei secoli tra i forestieri e la popolazione locale ha influenzato le abitudini e le tradizioni di quest’ultima, che ha preservato fino ai giorni nostri un atteggiamento di spiccata cordialità e accoglienza nei confronti dei turisti.


Una cucina legata alla tradizione, ma innovativa – Parla lo chef Donato Di Nunzio

L’Hotel degli Olmi (fotografia di Ruggero Carlo Giannini)

Villetta Barrea vanta dunque una lunga tradizione legata alla solidarietà tra abitanti e visitatori: ciò mira a valorizzare il settore turistico, che sta cercando di riprendersi dopo il duro colpo inferto dalla pandemia. Il borgo è composto da numerosi alberghi a gestione familiare la cui amministrazione viene passata di generazione in generazione.

Tra questi figura “Hotel degli Olmi” (a sinistra, NdR), albergo a tre stelle gestito da più di trent’anni da parte della famiglia Di Nunzio dove, tra i servizi di alta qualità e il personale competente, si esalta l’arte culinaria di un giovane e talentuoso cuoco in grado di proporre una cucina all’avanguardia in grado di unire e rivisitare le ricette della tradizione abruzzese con gusto e brillante inventiva. Un ragazzo dallo sguardo attento, ma sempre sorridente, il suo nome è Donato Di Nunzio e ai nostri microfoni ha voluto raccontare il suo lungo percorso di formazione (frutto degli insegnamenti ricevuti dal pluripremiato chef Nico Romito), oltre a svelare i segreti della propria cucina e a dare qualche spunto di riflessione sull’attuale stato del mondo della ristorazione.

Lo chef Donato Di Nunzio durante la preparazione di un piatto (si ringrazia l’intervistato p.g.c.)

Donato Di Nunzio, grazie mille innanzitutto per aver accettato di rispondere alle nostre domande.
Per prima cosa, può rivelarci dove è nata la sua passione per i fornelli?

La mia passione per i fornelli è nata all’interno della mia struttura: gestiamo un hotel di famiglia ormai da tre generazioni. Sono sempre stato a contatto con la cucina, il cibo e il mondo della ristorazione.
È una passione nata dentro casa con la mia famiglia, i miei nonni e i miei genitori.

Cosa l’ha spinta a intraprendere questo percorso?

La motivazione più grande è nata dall’opportunità che ho avuto otto anni fa di fare un corso di alta formazione nell’alta cucina presso il ristorante “Reale” di Castel di Sangro, insignito di tre stelle Michelin.
Lì ho capito che il mondo della cucina poteva essere quello più adatto a me: un mondo contemporaneo, moderno, fatto di studio e applicazione, non soltanto quindi legato alla tradizione e alla famiglia.
Con un occhio diverso, più preciso, più studioso ho capito che avrei potuto fare qualcosa di buono sia per me che per la mia struttura.

Uno dei suoi punti di forza come chef sta nella capacità di unire gli elementi della cucina locale con la sua creatività. Come riesce a bilanciare questi due fattori durante la preparazione dei suoi piatti? Può farci qualche esempio?

La risposta è più semplice di quanto si possa immaginare: bisogna semplicemente capire quello che si sta facendo e studiare la materia prima che si utilizza, perché solo tramite lo studio di quest’ultima e con la comprensione delle reazioni che avvengono quando si va a trattare e a cucinare un alimento, riusciamo a capire cosa fare.
Un esempio è quello della panificazione: quando si impastano acqua e farina bisogna riuscire a gestire tutti quelli che sono i vari meccanismi, dal controllo della formazione del glutine, alla scelta del tipo di farina più adatto e alla stessa lievitazione, impiegando il lievito madre con tutti i suoi benefici, i batteri e gli acidi che si vengono a formare.
Da quel momento in poi, con una maggiore consapevolezza del prodotto che si utilizza, riusciamo a ottenere un risultato finale più preciso. È necessario standardizzare, inoltre, perché non si possono creare sempre piatti diversi: un bravo chef deve avere una linea e dare sempre un ottimo prodotto al cliente.

A differenza di tanti altri chef, Lei si dedica anche alla realizzazione di dolci e dessert. Perché ha deciso di specializzarsi anche nel comparto della pasticceria?

Nel mondo della ristorazione, soprattutto in quella moderna, il reparto della pasticceria sta diventando sempre più importante. Quando vado a mangiare nei ristoranti, negli alberghi o in altri locali, noto che il dolce viene sempre messo da parte, quasi accantonato. Così anche il cliente trova sempre il “solito” tiramisù, la “solita” panna cotta e le “solite” guarnizioni già preparate.
Ma il dolce, così come l’antipasto e il pane, è parte integrante e fondamentale di un buon pasto. Bisogna quindi dedicare molta attenzione anche alla pasticceria, perché è un mondo molto vasto e interessante.

Qui all’”Hotel degli Olmi” Lei gestisce cento coperti al giorno. Come riesce a gestire l’importante carico di lavoro giornaliero?

Sicuramente non sono solo nel gestire il comparto della cucina. Occorre studio e a volte è necessario fermarsi, sedersi, leggere, scrivere e capire quello che si sta facendo.
La cucina non significa prendere un agnello, spaccarlo sui ferri e metterlo a cuocere: occorre trovare un equilibrio, organizzarsi e avere tanta passione per affrontare un carico di lavoro che è sicuramente elevato. Quello dello chef non è un lavoro adatto a tutti perché le ore giornaliere sono tante, la mole di lavoro è importante e lo stress, beh, anche (ride, NdA)!
Attraverso l’organizzazione però, oltre all’affidamento a fornitori capaci di procurare i prodotti adatti in uno specifico periodo dell’anno, si riesce tranquillamente a far mangiare cento persone e a farne contente “almeno novantanove” (ride di nuovo, NdA)!

Uno dei piatti dello chef Donato Di Nunzio: “Capocollo alle erbe, purè all’arancia e gel alle mele” (fotografia di Ruggero Carlo Giannini)

Quali sono gli insegnamenti più importanti che ha appreso dal suo mentore, lo chef Nico Romito?

Da Nico Romito ho imparato il riutilizzo delle materie generalmente poco apprezzate, non tanto di scarto e neanche inferiori, ma ritenute poco adatte all’alta cucina, come alcuni vegetali.
Ho appreso anche l’importanza che alcune cotture e tecniche vanno a dare a elementi meno importanti come possono essere un carciofo, una zucca o un pomodoro.
Sono elementi che, se trattati come si deve con determinate tecniche, studio e concentrazione, riescono a avere delle consistenze impensabili. A volte, s
i può persino riuscire a far mangiare una melanzana con la stessa carnosità e la stessa succulenza di una bistecca.
Bisogna riuscire a valorizzare tutti i prodotti, anche quelli che possono risultare più “poveri” e non puntare soltanto su ostriche, caviale o filetti di vitello, ovvero dei prodotti non più sostenibili al giorno d’oggi. Bisogna avere l’occhio più lungo del necessario.

Cosa si sente di poter consigliare ai giovani aspiranti chef che si approcciano al mondo della cucina?

Non penso ci sia soltanto un consiglio da poter dare. La cucina non è quello che si vede al giorno d’oggi in televisione nei vari talk show o in programmi come Masterchef.
Sicuramente alcune qualità importanti in uno chef sono la capacità di immaginazione e di creazione di ottimi piatti. Al giorno d’oggi, un giovane in procinto di approcciarsi a questo tipo di esperienza deve essere ben convinto della decisione che intende prendere, perché si tratta di un mestiere difficile e duro.

Detto questo, però, è anche vero che alcune cose devono cambiare: spesso infatti, all’interno delle cucine, le ore di lavoro sono troppe, a volte lo stress e i carichi di lavoro sono eccessivi e il compenso non sempre è adeguato allo sforzo compiuto.
Se questo mestiere regala enormi soddisfazioni da una parte, dall’altra rappresenta un lavoro molto impegnativo che dovrebbe essere ripagato con il giusto compenso e, soprattutto, con una giusta qualità di vita sul posto di lavoro: diversamente da quanto si possa erroneamente pensare, non si può pensare di svolgere questo impiego ogni giorno, tutti i giorni e per tutto l’anno, in maniera abitudinaria.
La bravura nel cucinare in casa durante la domenica non è sufficiente per intraprendere questo percorso, perché quello dello chef è un lavoro che necessita di tanti passaggi che non possono essere improvvisati da un giorno all’altro: occorrono sei, sette, otto, addirittura dieci anni per comprendere i tanti vari meccanismi dell’ampio mondo della ristorazione.

Il più grande consiglio che mi sento quindi di poter dare a un aspirante
chef è quello di capire realmente se i fornelli sono la sua passione perché fare felici le persone è una sensazione bellissima.

Grazie mille per averci concesso parte del suo tempo e per averci illuminato sul significato dell’essere uno chef.

Di nulla, il piacere è stato tutto mio!

Lo chef Donato Di Nunzio con alcuni dei suoi piatti (si ringrazia l’intervistato p.g.c.)

Informazioni sull'autore

Nato a Roma nel 2005, è uno studente che frequenta il liceo classico tradizionale.
Noto tra gli amici semplicemente come “Ruggo”, all’età di sedici anni viene attirato dalla realtà del giornalismo e inizia a pubblicare articoli che interessano il settore dell’intrattenimento.

La sua passione per la recitazione e il doppiaggio lo spinge a iscriversi per un provino all’Accademia del Doppiaggio, dove viene selezionato tra i candidati più idonei alla partecipazione di un corso pluriennale.
Il suo sogno nel cassetto? Diventare un doppiatore professionista.

Avido lettore dei fumetti della Marvel e accanito divoratore di serie televisive, nutre un grande amore per il cinema e verso la Settima Arte non esistono confini di alcun tipo: si va dal cinema d’autore e quello indipendente fino ai prodotti più mainstream.

Tra le altre sue passioni, inoltre, adora i videogiochi e il potersi cimentare nei giochi da tavolo e in quelli di ruolo, oltre all’astronomia e – da ultima – la passione per la buona tavola.
Quest’ultima è stata alimentata nel corso degli anni grazie all’approccio alle culture culinarie di diversi paesi (dalla Spagna alla Grecia, passando per la cucina asiatica e quella dell’America Latina, senza dimenticare le prelibatezze regionali del nostro Paese).

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