Filosofia

Una lettura critico-analitica attorno alla Filosofia della Scienza

L’evento filosofico di Venerdì scorso incentrato sull’analisi e il confronto attorno alla Filosofia della Scienza ha portato una vivace e sentita partecipazione da parte del pubblico, stimolato dai temi trattati nel simposio organizzato da Gianluca Ranucci che ha visto la partecipazione della dott.ssa Maria Alessandra Varone di Leonardo Trabalza come graditi ospiti.

Anche in quest’occasione, l’organizzatore dell’evento ha voluto commentare e approfondire per noi il tema oggetto della conferenza per la ricerca di ulteriori spunti di riflessione.


Epistemologia: quali sono i limiti della scienza?

La filosofia della scienza (indicata anche come “epistemologia”) è la branca della filosofia che studia le radici, il metodo e i limiti della scienza stessa, proponendosi di comprendere come la ricerca in questo ambito prosegua nel suo cammino verso la conoscenza. Il metodo scientifico tradizionale è quello di tipo induttivo-deduttivo e venne teorizzato da Galileo Galilei nella prima metà del Seicento.

È grazie a Galilei che la scienza, da “qualitativa” come era stata nell’antichità e nel Medioevo, divenne “quantitativa”, iniziando così a misurare i fenomeni: secondo Galilei, infatti, il fondamento primario del metodo scientifico erano le «sensate esperienze>> [1] , in particolare la vista. L’osservazione di un singolo particolare, tuttavia, non è in grado di fornire la dimostrazione di una legge generale: per ottenerla è infatti necessario condurre degli esperimenti (le <<necessarie dimostrazioni>> [2]) tramite cui, se l’esperimento comprova l’iniziale percezione empirica, la teoria è considerata valida fino a prova contraria, ovvero fino a quando un altro particolare non potrà essere in grado di smentirla.

Le prime critiche a tale metodo di ricerca compaiono già durante il Seicento, in particolare da parte di Francis Bacon secondo il quale non aveva senso considerare “generale” una legge formulata a partire dall’osservazione di casi particolari.
Una considerazione che portava alla conseguenza, a livello teoretico, di non considerare il metodo come induttivo-deduttivo, ma come esclusivamente induttivo: la teoria elaborata doveva essere formulata infatti soltanto in seguito all’osservazione di tutti i casi particolari, attraverso il confronto di tre «tavole» ideali immaginate da Bacon, nelle quali indicare rispettivamente le circostanze in cui il determinato fenomeno aveva luogo (“tavola della presenza”) , quelle in cui non aveva luogo (“tavola dell’assenza”) e la misura in cui lo stesso aveva luogo in ogni singolo caso (“tavola dei gradi”).
La legge generale formulata doveva essere infine comprovata da un esperimento finale, che comprendesse tutti i casi particolari presi in considerazione (“istanza cruciale“), in seguito al quale la teoria scientifica era da considerarsi valida in relazione alle sole circostanze osservate.


La critica al metodo galileiano da parte dell’Empirismo inglese

Per questo motivo Francis Bacon è stato incluso da alcuni studiosi tra i pensatori dell’Empirismo inglese, tradizionalmente rappresentata da figure come quelle di Locke, Berkeley e Hume. Allo stesso modo, anche Thomas Hobbes viene talvolta considerato un empirista, dal momento che in vita ebbe modo di discutere l’impiego del metodo scientifico all’interno delle scienze naturali, facendo coincidere il «verum» con il «factum» e spiegando come l’uomo potesse conoscere con certezza solo ciò che è creato dalla sua mente (es. la grammatica, la politica etc.) ma non ciò che deriva dalla natura.

Tra gli empiristi inglesi, la figura più radicale fu quella di David Hume, che estese la critica condotta da Hobbes e negò sia il metodo galileiano sia le conclusioni di Bacon ricollegandosi alle idee già esplicate da Sesto Empirico negli “Schizzi Pirroniani”: nel pensiero di Sesto Empirico (e di Hume), infatti, l’induzione non poteva essere valida dal momento che era impossibile osservare tutti i casi particolari possibili, essendo questi infiniti.
Allo stesso modo, il filosofo scozzese ebbe modo di confutare il legame causa-effetto (o causalità) poiché reputava errato affermare, nell’osservare due fenomeni consecutivamente, che il primo fosse causa del secondo.
Provando a fare un esempio, se si osserva una matita cadere dopo esser stata rilasciata dalla propria mano, nulla prova che la caduta (che indicheremo con B) sia stata provocata dall’apertura della mano stessa (che indicheremo con A): i sensi, infatti, non mostrano che A sia causa di B, ma che A accada prima di B. Pertanto, la relazione tra i due fenomeni non è di tipo causale, bensì temporale.

Gli uomini, secondo Hume, associano casi particolari diversi tra loro per mezzo di tre “principi di associazione”, ovvero quelli di somiglianza, contiguità e causalità. Eppure nessuno dei tre principi di associazione indicati ha valore teoretico, ma allo stesso tempo sarebbe praticamente impossibile e addirittura “inumano” non impiegarli dal momento che l’uomo, essendo dotato di ragione (la facoltà di concepire il “noumeno”), è inevitabilmente portato a formulare i propri giudizi nonchè a condurre la propria esistenza sulla base di quei tre principi, pur essendo questi teoreticamente indimostrabili.


L’influsso della critica di Hume nel Novecento

La critica humeana è stata in seguito ripresa durante il secolo scorso da tre epistemologi, ossia Karl Popper, Paul K. Feyerabend e Thomas Kuhn.
Il primo, in opposizione al metodo induttivo di cui l’Ottocento aveva largamente abusato tramite correnti di pensiero quali l’idealismo, il positivismo o il marxismo, sviluppò un nuovo metodo definito come “falsificazionismo”: secondo Popper, infatti, è impossibile asserire una teoria generale a partire da una qualsiasi quantità di casi particolari, ma è possibile smentire la prima attraverso un solo particolare ad essa opposto.
Per fare un esempio, se si osservano moltissimi cigni neri, diviene impossibile affermare che questi siano tutti neri ma si può asserire, nel caso in cui si osservare anche un solo cigno bianco, che questi non siano tutti neri.
Popper, dunque, critica l’induzione ma accetta la deduzione: secondo il filosofo austriaco, non si può comprendere cosa è vero ma solo cosa è falso. La conoscenza scientifica, dunque, non giunge mai a teorie definitive: ogni ipotesi è possibilmente smentibile da un qualsiasi particolare ulteriormente osservato, e il fatto che essa non sia ancora confutabile non significa che l’esperienza futura non la falsificherà mai. L’epistemologia popperiana è stata ampiamente ripresa da altri filosofi politici liberali novecenteschi tra i quali si possono citare Isaiah Berlin e Friedrich von Hayek: la negazione dell’induzione, infatti, è il fondamento stesso del liberalismo dal momento che il lassez-faire” (trd. “lasciar fare”) viene riconosciuto dagli aderenti a questa corrente di pensiero come unica soluzione possibile da un punto di vista economico ma anche politico, essendo l’unico assetto che non necessita un controllo razionale dei processi.

Nel caso di Paul K. Feyerabend, che fu allievo sia di Popper che di Kuhn, ci si spinge ben oltre la critica del suo maestro, dal momento che il pensatore austriaco non negò soltanto l’induzione, ma anche la falsificazione, ritenendola insufficiente alla soluzione delle questioni poste dalla scienza. Secondo Feyerabend, infatti, la scienza e la metafisica non hanno alcuna distanza, ma addirittura coincidono l’una con l’altra: come spiegato nella sua opera magna “Contro il metodo” (1975), per Feyeraband la scienza è “religiosa”, in quanto si fonda su dogmi indimostrabili, e di conseguenza la libertà dell’uomo può esistere soltanto laddove scienza e politica siano rigidamente separate tra loro, così come può esserci libertà per l’uomo soltanto in luoghi dove Stato e Chiesa siano entità divise (essendo la scienza al pari della religione).

Infine, nel caso del fisico statunitense Thomas Samuel Kuhn, si affermava che i “paradigmi” supposti dalla scienza non venissero né vengono accettati in quanto veri, ma in quanto maggiormente condivisi.
Concetti come la magia, la forza o l’idea di Dio si equivalgono come cause teoretiche e nelle diverse epoche della Storia sono state rispettivamente accettate e in seguito confutate non perché una fosse più veritiera dell’altra, ma perché ognuna incarnava la visione esistenziale condivisa nell’epoca in cui è stata prodotta.
In conclusione, per Kuhn la scienza non ha alcun fondamento teoretico, ma interamente culturale.


Note e ulteriori riferimenti

[1][2] “Stante, dunque, che la Scrittura in molti luoghi è non solamente capace, ma necessariamente bisognosa d’esposizioni diverse dall’apparente significato delle parole, mi par che nelle dispute naturali ella doverebbe esser riserbata nell’ultimo luogo: perché, procedendo di pari dal Verbo divino la Scrittura Sacra e la natura, quella come dettatura dello Spirito Santo, e questa come osservantissima esecutrice de gli ordini di Dio; ed essendo, di più, convenuto nelle Scritture, per accomodarsi all’intendimento dell’universale, dir molte cose diverse, in aspetto e quanto al significato delle parole, dal vero assoluto; ma, all’incontro, essendo la natura inesorabile e immutabile e nulla curante che le sue recondite ragioni e modi d’operare sieno o non sieno esposti alla capacità de gli uomini, per lo che ella non trasgredisce mai i termini delle leggi imposteli; pare che quello de gli effetti naturali che o la sensata esperienza ci pone innanzi a gli occhi o le necessarie dimostrazioni ci concludono, non debba in conto alcuno esser revocato in dubbio per luoghi della Scrittura ch’avesser nelle parole diverso sembiante, poi che non ogni detto della Scrittura è legato a obblighi così severi com’ogni effetto di natura.” (Galileo Galilei, “Lettera a Padre Benedetto Castelli”, 21 dicembre 1613)

Informazioni sull'autore

Nato a Roma nel 2004, è uno studente che frequenta il liceo scientifico tradizionale. All’età di sedici anni, si appassiona alla filosofia e nei due anni successivi - tra i diciassette e i diciotto anni- redige e pubblica un saggio incentrato sullo studio e l'analisi della filosofia.

Una passione crescente, quella per la filosofia, che è stata alimentata e nutrita con l'approfondimento e lo studio con numerose letture e confronti che l'hanno avvicinato al pensiero liberale (in particolare, al pensiero della Scuola di Vienna).
Patito inoltre di economia e politologia, interessi sviluppati in concomitanza al legame sempre più forte verso la filosofia, nel 2021 si iscrive al think tank Istituto Liberale, dove ancora oggi contribuisce con la pubblicazione di vari articoli per l’associazione.

In aggiunta, quest'anno sceglie di dare vita, assieme a Francesco Sampaolo e Nicolas Journet, a un proprio progetto, quello dello Snake Institute, improntato per divenire un think tank dal pubblico internazionale e condotto, per questa motivazione, esclusivamente in lingua inglese.

Una sua ulteriore passione è quella per la musica, che porta avanti fin da bambino con lo studio del pianoforte e di canto.

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