Filosofia

Comprendere la Filosofia del Linguaggio – Una panoramica concettuale sulle relazioni interpersonali

Dopo l’importante ritorno, in termini di partecipazione e coinvolgimento del pubblico, per il primo evento da remoto dell’Associazione Culturale ReAct360 intitolato “Filosofia del Linguaggio”, è tempo di approfondire ulteriori elementi discussi durante il dibattito filosofico che ha rappresentato il secondo capitolo di un più ampio percorso di confronto portato avanti dalla nostra Associazione, con la particolare attenzione del nostro associato Gianluca Ranucci, sui grandi pensatori della Filosofia e sulle idee oggetto del loro pensiero.
Come avvenuto in occasione dell’evento di Venerdì scorso, che ha visto la gradita partecipazione del professor Emanuele Pinelli e di Roberto Nappo come ospiti, Gianluca Ranucci ha voluto riproporre per i nostri lettori alcuni dei passaggi essenziali del dibattito legato al tema dell’incontro
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L’impatto e il valore del linguaggio

Il linguaggio è parte imprescindibile dei rapporti interpersonali fra esseri umani, in quanto permette la comunicazione, il confronto e la discussione, attività al centro delle relazioni civili tra individui. L’importanza del linguaggio è tale da poter affermare che in esso risieda la differenza sostanziale fra uomini e animali dal momento che questi, contrariamente agli umani, impiegano un sistema di suoni ma non un sistema di segni.
Del linguaggio – sia a livello concettuale che pratico – si occupa anche la filosofia, tramite la quale è possibile comprendere in quale modo mente e linguaggio siano correlati e quanto dipendano l’una dall’altro.

Lo studio filosofico del linguaggio ha avuto i suoi primi riferimenti nell’antica Grecia e, fin da subito , si è distinto per la disputa concettuale tra i c.d. “naturalisti” e i c.d. “convenzionalisti”.
I naturalisti credevano che il linguaggio incarnasse l’essenza delle cose – che fosse ovvero legato, in termini tecnici, al piano ontologico – mentre i convenzionalisti affermavano che i vocaboli derivassero da convenzioni stipulate tra gli uomini e che pertanto fossero connessi al piano logico.
I pensatori più famosi della filosofia greca possono essere collocati tra le fila dei convenzionalisti; il primo fra tutti fu Eraclito, che pose le fondamenta del convenzionalismo attribuendo al termine “logos” (λόγος) i tre significati di “legge universale”, “ragione” e “discorso”.
Allo stesso modo il naturalista Parmenide, seppur opponendosi a Eraclito nella disputa tra essere e divenire, credeva che il linguaggio non incarnasse l’essenza delle cose: se questo fosse stato vero, infatti, a ogni vocabolo avrebbe dovuto far seguito un essere differente, ma per il pensatore greco questo sarebbe stato impossibile, dal momento che l’essere è uno e che – per il pensiero naturalista – vi è la coesistenza di essere e non-essere.

Anche Democrito, fisico pluralista, sostenne e corroborò la visione convenzionalista mediante quattro prove: se infatti a ogni nome dovesse corrispondere un’essenza, le parole molteplici impiegate per descrivere un oggetto avrebbero implicato l’esistenza di più essenze per la stessa sostanza, generando in questo modo una contraddizione logica.
Uno scenario di questo tipo si andrebbe a presentare di nuovo nel momento in cui si dovesse utilizzare la medesima parola per indicare dei concetti differenti: se infatti il linguaggio incarna il piano ontologico, gli oggetti innominati non esisterebbero, mentre essi esistono indipendentemente dal linguaggio.
Infine, se la tesi naturalista fosse corretta, la coesistenza di più sistemi di linguaggio differenti sarebbe concettualmente e praticamente impossibile, mentre i significati associati ai termini sono completamente arbitrari (una visione questa che sarebbe stata in seguito ripresa dai sofisti, in particolar modo da Prodico di Ceo).

In una posizione intermedia tra queste due linee di pensiero si sarebbe posto il filosofo Platone, come si può evincere dalla lettura del suo dialogo “Cratilo” in cui Socrate (l’incarnazione del pensiero platonico), intromettendosi nella discussione tra il naturalista Cratilo e il convenzionalista Ermogene, concluderà che il linguaggio derivi in parte dalla natura (i nomi sono parzialmente onomatopeici) e in parte dalla convenzione (i vocaboli possiedono un significato che va al di là della semplice fonetica).

Di posizione diametralmente opposta invece Aristotele il quale, da convinto pensatore convenzionalista, in vita rifiutò sia la visione naturalistica che quella platonica, sancendo una distinzione tra oggetto – ossia l’essere ontologico a cui si fa riferimento quando si sviluppa il linguaggio – e segno – ovvero l’insieme di lettere che formano le parole.

Gli stoici infine, che forniranno un’enorme contributo alla filosofia del linguaggio, riprenderanno in chiave storiografica il pensiero di Platone, affermando che le parole si svilupparono prima da un punto di vista onomatopeico e in seguito semantico, oltre a ampliare la lettura aristotelica (in ambito prettamente teoretico) mediante l’inserimento di un’ulteriore distinzione: secondo gli stoici, infatti, era vero che oggetto e segno (inteso come “significante”) fossero strettamente connessi, ma il significante era a sua volta sconnesso dal “significato” (λεκτόν), che a differenza dell’oggetto e del significante, era la parte immateriale di ogni parola.


Il linguaggio per Thomas Hobbes e Giambattista Vico

Il dibattito sul linguaggio ebbe modo di proseguire nel corso del Medioevo quando, come in epoca antica, si osservò una nuova contrapposizione tra convenzionalismo e naturalismo (da leggersi attraverso la chiave di lettura cristiana), ma è in epoca moderna che si poté constatare l’ampliamento del confronto sull’argomento nelle varie capitali europee durante la fase antecedente all’Illuminismo e lo stesso periodo dei Lumi quali Thomas Hobbes, in qualità di precursore dell’Empirismo inglese, Giambattista Vico e i già menzionati empiristi inglesi.

La figura di Giambattista Vico è di significativa rilevanza: è grazie a lui infatti che, in un evidente rimando alla lettura stoicista, si assisterà alla nascita di una vera e propria storia dello sviluppo del linguaggio.
In base al pensiero del filosofo napoletano, la storia è ciclica e attraversa delle fasi che si ripetono e susseguono in ogni civiltà che si sviluppa, dove per ognuna di queste corrisponde una forma di linguaggio differente.

Nella prima epoca, indicata da Vico come “l’età degli dei”, il linguaggio umano si avvicinava a quello dei fanciulli, in quanto in essi prevaleva la capacità immaginativa su quella razionale e, come diretta conseguenza la lingua era estremamente basica. Nella seconda epoca, definita “l’età degli eroi”, alcuni uomini o alcuni gruppi iniziavano a assumere il potere e ad associare se stessi agli dei; in questa fase, dunque, il linguaggio serviva a celebrare i valori incarnati non più dagli dei ma dagli eroi attraverso il richiamo al mito e, pertanto, la lingua assumeva una connotazione poetica.
Nella terza e ultima epoca, ovvero “l’età degli uomini”, il linguaggio diveniva meramente il mezzo per esprimere le conclusioni della ragione, spogliandosi in questo modo di ogni suo carattere poetico e divenendo uno strumento puramente logico.
Secondo Giambattista Vico la razionalizzazione di qualsiasi parte della vita dell’uomo non rappresentava in alcun modo un progresso bensì una regressione, in quanto provocava il collasso di ogni civiltà.

Nel prendere in esame la figura di Giambattista Vico, diviene necessario disquisire anche di quella di Thomas Hobbes, figura di profondo spessore intellettuale alla quale Vico si ispirò ampiamente.
Secondo il filosofo britannico, infatti, il linguaggio non era altro che una mera astrazione che non incarnava la reale essenza delle cose (un’idea che venne in seguito ripresa sia dagli empiristi che, durante il Novecento, da Ernst Cassirer e Ludwig Wittgenstein) ma rappresentava esclusivamente una convenzione (il c.d. “nominalismo”).

Il linguaggio, che distingue umani e animali, rappresentava appieno le facoltà della ragione dal momento che questa, nel suo agire, svolge operazioni di calcolo – ossia di addizione e sottrazione di concetti – riconducibili a associazioni linguistiche. La ragione d’altro canto, nel momento in cui connette idealmente impressioni differenti, unisce dei caratteri particolari comuni a entrambe per mezzo dei vocaboli, secondo quelli che David Hume avrebbe in seguito chiamato “principi di associazione” (somiglianza, contiguità e causalità).
Essendo le conclusioni della ragione frutto del linguaggio e non di constatazioni empiriche, esse non possono in alcun modo essere certe in quanto, unendo particolari diversi tramite termini universali, sono incapaci di descrivere pienamente la realtà fenomenica.

Informazioni sull'autore

Nato a Roma nel 2004, è uno studente che frequenta il liceo scientifico tradizionale. All’età di sedici anni, si appassiona alla filosofia e nei due anni successivi - tra i diciassette e i diciotto anni- redige e pubblica un saggio incentrato sullo studio e l'analisi della filosofia.

Una passione crescente, quella per la filosofia, che è stata alimentata e nutrita con l'approfondimento e lo studio con numerose letture e confronti che l'hanno avvicinato al pensiero liberale (in particolare, al pensiero della Scuola di Vienna).
Patito inoltre di economia e politologia, interessi sviluppati in concomitanza al legame sempre più forte verso la filosofia, nel 2021 si iscrive al think tank Istituto Liberale, dove ancora oggi contribuisce con la pubblicazione di vari articoli per l’associazione.

In aggiunta, quest'anno sceglie di dare vita, assieme a Francesco Sampaolo e Nicolas Journet, a un proprio progetto, quello dello Snake Institute, improntato per divenire un think tank dal pubblico internazionale e condotto, per questa motivazione, esclusivamente in lingua inglese.

Una sua ulteriore passione è quella per la musica, che porta avanti fin da bambino con lo studio del pianoforte e di canto.

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