Cinema

La quindicesima edizione dell’IRISH FILM FESTA ha inizio

L’IRISH FILM FESTA raggiunge e taglia il traguardo delle quindici edizioni consecutive, un riconoscimento che rappresenta una grande soddisfazione per gli organizzatori di una rassegna cinematografica che negli anni si è oramai consolidata al punto da divenire un punto di riferimento e una vetrina di primissimo ordine per la cinematografia irlandese nel mondo e una grande occasione per il pubblico romano per immergersi nel mondo del cinema. Per celebrare questo evento, la quindicesima edizione della rassegna (in programmazione fino a Domenica 7 Aprile alla Casa del Cinema in Villa Borghese) ha presentato un ricca serie di incontri e proiezioni, molte delle quali alla loro prima uscita in Italia: dieci film, due “classici” (di cui uno inedito in Italia) e il concorso dei cortometraggi, con ben quindici pellicole in lizza ripremi nelle categorie Live Action, Documentari e Animazione.


Il cortometraggio (fuori concorso) della giornata – La gemma intitolata “Shakes versus Shav”

In apertura di giornata, la prima proiezione ha riguardato un cortometraggio fuori concorso in questa edizione della FESTA con un lavoro che mi ha personalmente incuriosito sin fin dalla prima visione del trailer.
Una curiosità che è stata del tutto soddisfatta:
“Shakes versus Shav è stato infatti un corto veramente apprezzabile sia per il soggetto – ovvero la trasposizione dell’ultima opera scritta in vita dal Premio Nobel per la Letteratura George Bernard Shaw – che per la sua effettiva realizzazione in animazione a tecnica mista che, sfruttando le nuove tecnologie digitali e la maestria artigianale dell’arte burattinaia, ha permesso un restauro a regola d’arte delle marionette originali realizzate al tempo per Shaw per il suo dramma composto e presentato nel 1949 quando aveva 94 anni.
Sì, avete letto bene, si parla di
un dramma per marionette in cui l’anziano scrittore, poeta e intellettuale irlandese immaginò un ultimo, veemente duello “cortese” da ingaggiare con il “Bardo” di Stratford upon Avon (Shaw si paragonò in numerose occasioni e apparizioni pubbliche del tempo) per decretare chi fosse davvero il “Maestro” della lingua inglese.
A prestare le loro voci per riportare in vita Shaw e Shakespeare, un cast d’eccezione composto da due mostri sacri della recitazione quali Colm Meaney e – soprattutto – Derek Jacobi, per un gradevolissimo cortometraggio di 18 minuti che, nel far apprezzare l’ultima opera scritta dal drammaturgo nato nel quartiere di Portobello (Dublino), mi ha anche riportato indietro negli anni a dei piacevoli ricordi d’infanzia legati proprio alle marionette.
In poche parole,
assolutamente consigliato!


Notes from Sheepland – Storia di un’opera (fin troppo) concettuale

Terminato il cortometraggio, si passa direttamente alla prima pellicola della rassegna: il documentario “Notes from Sheepland” diretto dalla regista irlandese Cara Holmes su sceneggiatura della sua “protagonista”: l’artista visiva – nonchè allevatrice di pecoreOrla Barry.

Vincitore di importanti riconoscimenti al Festival Internazionale di Dublino (DIFF) e al Docs Ireland 2023 e candidato in due categorie agli IFTA Awards di quest’anno, questo documentario – in parte – “parla anche italiano”, per merito del direttore della fotografia Luca Truffarelli, che ieri si è presentato a sorpresa alla Casa del Cinema per seguire la proiezione e portare i saluti della regista al pubblico presente in sala.
Nella breve intervista avuta con la Direttrice Artistica dell’IRISH FILM FESTA
Susanna Pellis, Truffarelli ha condiviso alcuni aneddoti del “dietro le quinte” di questa pellicola (dalla realizzazione tecnica con un budget limitato – ma con un grande potenziale di idee e creatività – all’impegno totalizzante profuso per questo lavoro al quale, inizialmente, hanno creduto in pochissime persone) ma si è anche aperto sulla sua esperienza personale di “espatriato” dublinese, un racconto che si unisce alle tante storie riguardanti la “fuga di cervelli” dal nostro Paese.

La Direttrice Artistica dell’IRISH FILM FESTA Susanna Pellis intervista il direttore della fotografia di “Notes from Sheepland” Luca Truffarelli

Il documentario, riportando le parole della stessa regista Cara Holmes, è un’opera che “parla della vita , dell’incredibile binomio tra arte e natura e del coraggio che di fare ciò che ti fa sentire vivo”. Un proposito all’apparenza nobile che si mostra concretamente nel raccontare la poliedrica vita di Orla Barry, dal suo rientro forzato in Irlanda – nella contea di Wexford – dopo una vita trascorsa dopo una lunga permanenza a Bruxelles alla “travolgente” scoperta del mondo della pastorizia e dell’allevamento di pecore, un incontro il cui impatto è stato così significativo per la Barry da farla divenire una sua “ossessione”.
Un’ossessione che viene documentata e raccontata dalle telecamere della regista e della troupe nel corso di un anno e portata al pubblico con una pellicola di poco più di un’ora che, al termine, ha raccolto
un sentito applauso da parte del pubblico presente in sala.

Allora perchè parlare di un lavoro “solo apparentemente” riuscito? La risposta che mi sento di dare si basa su due aspetti che ritengo essere tra loro collegati, e che contribuiscono a fornire anche un non indifferente rammarico: da un punto di vista tecnico, infatti, “Notes from Sheepland” è decisamente lontano dall’essere un film realizzato in modo superficiale, e si nota una notevole maestria messa in mostra dallo stesso Truffarelli in numerose sequenze molto evocative del documentario del film (per esempio, i dettagli della lana delle pecore, o il montaggio delle sequenze subacquee che ritraggono la protagonista). A impattare negativamente sul lavoro di questo documentario è – molto probabilmente – proprio l’aspetto concettuale nonchè contenutistico dell’opera: è la vita (o le vite, stando a quanto affermato dalla stessa artista) di Orla Barry a risultare eccessivamente caotica, a tratti persino irritante e pertanto incapace di raggiungere e catturare positivamente la mia attenzione.
C’è frenesia e caos nel racconto della protagonista e della sua esistenza, un caos che si crea e distrugge continuamente, in “sintonia” con l’ossessione dell’artista per il mondo della pastorizia ormai “armoniosamente fusosi” con la sua vena artistica, con una frequenza quasi morbosa e tale da poter risultare non solo di difficile comprensione per uno spettatore terzo ma anche alquanto frustrante (le sequenze dedicate alle performances artistiche e gli intermezzi del richiamo del corno da pastore sono soltanto alcuni esempi da poter portare).
Risulta persino paradossale che all’interno nel documentario
siano presenti anche degli importanti richiami critici a tematiche di attualità, degli attacchi riguardanti il modo di vivere delle nostre società, attaverso il punto di vista di un’allevatrice che – per via del c.d. “capitalismo della pastorizia” – si ritrova a dover allevare, nutrire e crescere delle pecore di altissimo pedigree con la consapevolezza di doverne portare una parte al macello con degli “standard qualitativi” alquanto rigidi (le costolette che devono rientrare nelle confezioni da immettere nei supermercati) e di dover “svendere” la lana prodotta dalle stesse, dal momento che è divenuta una “sottomerce” nei grandi mercati globali.
Queste riflessioni
vengono annichilite e depotenziate dall’ingombrante presenza della protagonista – con annessi “alter-ego” – e dalla sua arte concettuale.
A giudizio meramente personale, il documentario risulta essere quindi
un’opera che non riesce nel suo intento e – purtroppo – un’occasione mancata.


Anne Devlin, un tuffo nella storia ribelle d’Irlanda con il primo Irish Classic della FESTA

L’appuntamento con il primo Irish Classic di questa rassegna è un viaggio nella Storia irlandese, alla scoperta di una figura per molto tempo messa in disparte nella sua stessa patria che ebbe modo di vivere e partecipare attivamente ai moti rivoluzionari irlandesi del XIX Secolo. Il film in questione, “Anne Devlin”, viene proiettato inoltre per la prima volta in assoluto nel nostro Paese pur essendo stato girato nel lontano 1984.

Diretto dalla regista irlandese Pat Murphy, pioniera del cinema femminista in Irlanda, la storia del film – restaurato nel 2019 dopo un lungo lavoro – si sofferma sulla figura storica di Anne Devlin (QUI l’introduzione alla pellicola di Susanna Pellis), patriota ribelle irlandese che cospirò assieme a Robert Emmet e al cugino Michael Dwyer nelle sollevazioni che ebbero luogo a Dublino nel 1803 e che – seppur torturata brutalmente dalle forze dell’Impero Britannico – non rivelò mai i dettagli della congiura e non tradì i propri compagni. La peculiarità di questa pellicola, come dell’intera filmografia della Murphy, sta nell’aver esaminato questa storia dalla prospettiva di Anne Devlin, in quanto donna, per riportare alla luce e “riablitare” una figura per molto tempo scarsamente tenuta in considerazione nella storiografia del repubblicanesimo irlandese.

Nello scoprire, attraverso questa pellicola vista per la prima volta, una parte poco nota di un contesto storico e politico di cui nutro grande interesse e passione, ho apprezzato in particolar modo la grandissima cura dell’immagine: come descritto nell’intervento introduttivo alla pellicola della Pellis, la Murphy volle nella troupe il direttore della fotografia Thaddeus O’Sullivan, il quale scelse volutamente di fare affidamento alle sole luci naturali durante le riprese del film. Questa scelta tecnica mi ha catturato durante la visione di Anne Devlin perchè ha donato una enorme ricchezza al risultato finale, esaltando il racconto cinematografico con delle sequenze e delle scene che sembravano riprodurre dei veri e propri tableau vivant dalle evidenti ispirazioni caravaggesche.
L’unica piccola pecca di questo film, a parere personale, ha riguardato una
in parte eccessiva lunghezza di alcune sequenze che, nel descrivere allo spettatore dei momenti significativi del racconto (anche grazie a una azzeccata colonna sonora in grado di donare pathos nei suoi punti più drammatici) risultava dilatarsi in un eccessivo uso dei silenzi.
Nel complesso, si può comunque parlare di una pellicola molto interessante e gradevole da vedere.


La première italiana di “Lies We Tell” è un successo soddisfacente

Per la pellicola finale di giornata, alla presenza di una delegazione dell’Ambasciata della Repubblica d’Irlanda in Italia, si arriva a presentare il thriller gotico Lies We Tell, diretto lo scorso anno dalla regista Lisa Mulcahy e tratto dal racconto gotico “Uncle Silas” scritto nel 1864 da Joseph Sheridan Le Fanu.

Il film, alla sua prèmiere in Italia, è ambientato in piena epoca vittoriana e racconta la storia di una giovane ereditiera orfana, Maude (Agnes O’Casey, pronipote dello scrittore Seán O’Casey), che si ritrova a doversi affidare alla tutela dello zio Silas (David Wilmot) nel gestire il florido proprio patrimonio economico e terriero ricevuto in eredità dal padre morto in circostanze tragiche.
L’arrivo nella grande tenuta di Maude del parente, accompagnato dai figli
Emily e Edward (Holly Sturon e Chris Walley), porta a un ricongiungimento familiare “nuovo” per l’austera e pacata ragazza, fino a quel momento abituata a elaborare il proprio lutto e a vivere in estrema riservatezza e pudore (un connotato tipico della vita di quel tempo, come si può notare anche dai costumi), accompagnata soltanto dalla servitù e dai fiduciari della propria eredità.
Questo è soltanto il preludio di
una piega tumultuosa degli eventi e delle dinamiche tra Maude e i suoi parenti, in un crescendo di tensione drammatica che porterà anche a delle sconvolgenti scoperte.

La pellicola, nei suoi 89 minuti di durata, trasporta lo spettatore in un dramma in costume vittoriano con sfumature gotiche e lo coinvolge appieno in tutto lo svolgimento della storia e nello sviluppo narrativo dei suoi protagonisti e delle dinamiche tra gli stessi.
Molto convincenti le interpretazioni di David Wilmot e di Agnes O’Casey nei loro ruoli chiave, che donano grande drammaticità ai loro ruoli (e, nel caso della O’Casey, anche
un inaspettato ma perfetto momento di ilarità in un passaggio decisivo della storia). Un risultato finale molto apprezzato da tutto il pubblico della Sala Deluxe della Casa del Cinema, che ha applaudito in maniera molto sentita al termine della proiezione del film.

Informazioni sull'autore

Nato a Roma nel 1992, è uno studente laureando nel corso di Laurea Magistrale in Relazioni Internazionali presso l'Università "La Sapienza" di Roma.

Le passioni per la scrittura e per il mondo del giornalismo lo seguono da quando era ragazzo, confluendo in vari progetti nei quali ha accumulato esperienze e conoscenze: dagli anni dei giornali liceali fino all'inizio degli studi universitari, con il coinvolgimento attivo in una web-radio amatoriale in cui in due anni provvede a creare palinsesti, programmi e contenuti radiofonici dedicati alla musica, ma soprattutto alla promozione della musica emergente nella scena underground romana.

Dopo la laurea triennale in Scienze Politiche e Relazioni Internazionali conseguita nel 2015, nel 2017 torna a scrivere in un progetto editoriale nazionale che lo vede ancora oggi coinvolto. Infine, dopo un'ulteriore esperienza triennale in un progetto associativo nel quale ha avuto modo di organizzare da remoto numerosi eventi e conferenze dedicate all'approfondimento del mondo della geopolitica, contribuisce alla fondazione del progetto portato avanti da ReAct360.

Travolto da mille passioni e interessi, cerca ogni giorno di mantenere fede alla ricerca e al lavoro costante verso la conoscenza in tutto quello che lo circonda, non accontentandosi di una sola faccia della medaglia e dedicandosi a osservare il quotidiano con senso critico, in modo da poter formare una propria opinione.

Amante dell'Irlanda, della buona musica e della Storia, trova maggiore ispirazione nella scrittura durante le ore notturne, con un album musicale di sottofondo.

Per ReAct360 si occupa della scrittura di articoli, ma anche della revisione di bozze e comunicati stampa, oltre alla gestione del sito e al suo continuo ampliamento.

Il suo motto? "Credi in te stesso e fai in modo che i tuoi sogni diventino realtà".
Il suo mantra? Vivere la vita "in direzione ostinata e contraria".

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