Cinema

After Work – C’è vita oltre il lavoro?

Il lavoro, obbligo o necessità? È la domanda posta agli spettatori dal regista italo-svedese Erik Gandini (a sinistra, NdA) nel suo nuovo documentario After Work, uno dei progetti più discussi e apprezzati all’ultima Biografilm Festival di Bologna approdato a giugno anche nelle sale italiane.

Erik Gandini alla Filmhuset di Stoccolma per la presentazione del film “La Teoria Svedese dell’Amore” (fotografia del 2015).
Fonte immagine: Frankie Fouganthin / Wikimedia Commons (CC BY-SA 4.0)
Libero adattamento dei libri firmati dal sociologo svedese Roland Karl Oscar Ericsson Paulsen, la pellicola riflette sulla possibile scomparsa della quasi totalità dei mestieri per l’impatto portato in essere dallo sviluppo sul piano tecnologico (es. automazione, “intelligenze artificiali”).

Spinto dalla curiosità, mi sono recato in sala con la speranza che il film riuscisse a fornirmi ulteriori spunti di riflessione su un tema di notevole rilevanza sul quale la nostra associazione ha avuto modo di focalizzarsi con interesse (QUI la nostra panoramica sul mercato del lavoro durante la Quarta Rivoluzione Industriale).


“Lavorare o non lavorare? Questo è il dilemma”

“After Work” di Erik Gandini (Svezia/Norvegia/Italia, 2023) Fonte: Propaganda Italia/Facebook

A distanza di quasi quindici anni dall’uscita del suo documentario più celebre, Videocracy – Basta apparire (2009), in cui si ripercorreva l’ascesa di Silvio Berlusconi nel mondo televisivo, Erik Gandini torna nelle sale con un film incentrato su uno degli argomenti più controversi nell’ultimo secolo: il rapporto tra l’uomo e la tecnologia applicata al lavoro.

Stando a una ricerca pubblicata nel 2013 dall’Università di Oxford (The Future of Employment” [1]), si stima la probabilità che entro il 2033 gli addetti al telemarketing e i sottoscrittori di assicurazioni possano essere sostituiti dagli algoritmi (99%), assieme ai cassieri e agli autisti che verrebbero rimpiazzati dalle macchine automatizzate (le probabilità in questo caso si stagliano rispettivamente al 97% e all’89%). In uno scenario oramai non più così lontano, gli esseri umani riuscirebbero a vivere al di fuori di un contesto lavorativo?

Questo interrogativo porta il documentario a catapultare lo spettatore in un viaggio per il globo, mettendo a confronto le tesi elaborate dalle menti più esperte in materia – dai filosofi Noam Chomsky e Elizabeth S. Anderson fino a magnati del calibro di Elon Musk – con le prospettive di alcune persone che hanno un rapporto peculiare con il mondo del lavoro.

Si parte dalla Corea del Sud, nazione in cui predomina un’ideologia nella quale il lavoro è il nucleo centrale dell’esistenza umana e, di conseguenza, una vera e propria “ragione di vita”.
Secondo quanto mostrato dal regista, sarebbe proprio questa ragione di vita così pedissequamente perseguita a rappresentare la matrice comune delle crisi che stanno attualmente sconvolgendo il paese: calo demografico, aumento dei suicidi e la diffusione della c.d. “gwarosa” (morte per eccesso di lavoro).
A fronte dell’incremento delle morti, il Ministero del Lavoro sudcoreano ha dovuto emanare provvedimenti volti a convincere i cittadini a lavorare di meno, tra cui il “Diritto al riposo” (con cui si riduce l’orario della settimana lavorativa da un massimo di 68 ore a 52) e il “PC-off”, che prevede lo spegnimento dei computer alle ore 18 presso tutti i luoghi di lavoro.

All’altro capo del mondo, negli Stati Uniti d’America (definiti da molti come una no vacation nation”), vige una concezione simile del lavoro che però affonda le proprie radici nella teologia calvinista del XVI secolo, in cui si teorizzava come la predestinazione alla salvezza ultraterrena fosse riconosciuta dal successo nella vita.

Il terzo paese preso in esame da Erik Gandini è quindi il Kuwait, con la sua delicata e al contempo paradossale situazione: una tra le nazioni più ricche nel mondo grazie ai propri giacimenti di petrolio che si ritrova tuttavia a dover delegare ai propri uffici pubblici il compito di assumere un gran numero di cittadini con impieghi sostanzialmente inutili.
È il rovescio della medaglia per un paese che si ritrova con un’economia dipendente nella quasi totalità dall’esportazione del petrolio: potendo contare sulle entrate garantite dagli accordi commerciali con altri Paesi, infatti, non ci sono mansioni da svolgere e
i lavoratori pubblici trascorrono così le giornate in uno stato di inerzia, pur venendo ricompensate proficuamente alla fine del mese.

Da ultimo, il documentario dedica un capitolo al nostro Paese dove, negli ultimi anni, sta acquisendo sempre una maggiore rilevanza il mondo dei N.E.E.T. [2], giovani di età compresa tra i 15 e i 29 anni che non lavorano e non studiano, dedicandosi perennemente allo svago.

Nell’ultima classifica stilata dalla OECD Data nel 2021, l’Italia risulta al quarto posto tra i paesi con il tasso di disoccupazione più alto tra i giovani.
Fonte immagine: Lovepeacejoy404 / Wikimedia Commons (opera propria, CC BY-SA 4.0)

Da questi scenari si evince come l’uomo, al netto della concezione negativa affibbiata al lavoro nell’immaginario collettivo, non sia ancora in grado di condurre la propria esistenza senza di esso.
Finora non mi sono ancora addentrato nel mondo del lavoro eppure – personalmente – sono
rimasto molto colpito da questa lettura data dal regista, tanto da voler spendere qualche parola con una mia personale opinione in merito a questo fenomeno.

Partiamo da un esempio basilare, quello di una tipica giornata di lavoro: in questa finestra di tempo, un individuo può infatti entrare in contatto con una moltitudine di persone con cui ha la possibilità di socializzare e – in alcuni casi – poter instaurare un rapporto che, nuovamente in buona parte dei casi, può perdurare. Come afferma Aristotele d’altronde, l’uomo è da sempre un animale sociale, in grado di sopravvivere solo tramite la cooperazione con i propri simili all’interno della società, luogo e contesto nel quale il benessere collettivo rappresenta il pilastro che la sorregge.
Il lavoro mette in comunicazione le persone e le riunisce attraverso una serie di attività dal cui esito dipende la stabilità del sistema in cui esse vivono. Una sua eventuale scomparsa comporterebbe quindi un ridimensionamento di quei rapporti interpersonali che legano gli individui nell’arco di un’intera vita, perdendo così una parte di sè stessi.


Le mie considerazioni finali

A differenza di quanto compiuto da altri autori, Erik Gandini non si limita ad investigare nelle questioni riguardanti il mondo del lavoro da un punto di vista prettamente sociologico ma vi costruisce un’opera in cui sono le prospettive delle figure coinvolte a trainare la narrazione, realizzando un film scorrevole e connotato da un alone di realismo del tutto coinvolgente nei suoi settantasette minuti di durata.
La pellicola riesce in ogni caso a illuminare la mente dello spettatore sui rischi della sostituzione dell’uomo da parte della tecnologia nella sfera lavorativa.

Ben curato, infine, il comparto tecnico, dove a spiccare sono la fotografia di Fredrik Wenzel e la combinazione tra il montaggio e l’assortimento delle musiche, supervisionati entrambi da Johan Söderberg, storico collaboratore di Gandini dai tempi di Videocracy.


Cinque motivi per considerarlo…Promosso

– Il documentario approfondisce i modelli di lavoro presenti in diverse nazioni

– Le tematiche vengono trattate con efficacia grazie all’intervento degli esperti coinvolti

– I racconti delle persone intervistate rendono la narrazione più interessante

– Il comparto tecnico eleva la qualità dell’opera

– I dilemmi sollevati da Erik Gandini permangono nella mente dello spettatore anche al termine della visione


Note e ulteriori riferimenti

[1] Si rimanda alla lettura di C. Frey e M. Osborne, The Future of Employment: How Susceptible Are Jobs to Computerization, Oxford Martin School, University of Oxford, Oxford, UK, (Settembre 2013) (link: https://www.oxfordmartin.ox.ac.uk/publications/the-future-of-employment/)

[2] NEET = (Not [engaged] in Education, Employment or Training)

Informazioni sull'autore

Nato a Roma nel 2005, è uno studente che frequenta il liceo classico tradizionale.
Noto tra gli amici semplicemente come “Ruggo”, all’età di sedici anni viene attirato dalla realtà del giornalismo e inizia a pubblicare articoli che interessano il settore dell’intrattenimento.

La sua passione per la recitazione e il doppiaggio lo spinge a iscriversi per un provino all’Accademia del Doppiaggio, dove viene selezionato tra i candidati più idonei alla partecipazione di un corso pluriennale.
Il suo sogno nel cassetto? Diventare un doppiatore professionista.

Avido lettore dei fumetti della Marvel e accanito divoratore di serie televisive, nutre un grande amore per il cinema e verso la Settima Arte non esistono confini di alcun tipo: si va dal cinema d’autore e quello indipendente fino ai prodotti più mainstream.

Tra le altre sue passioni, inoltre, adora i videogiochi e il potersi cimentare nei giochi da tavolo e in quelli di ruolo, oltre all’astronomia e – da ultima – la passione per la buona tavola.
Quest’ultima è stata alimentata nel corso degli anni grazie all’approccio alle culture culinarie di diversi paesi (dalla Spagna alla Grecia, passando per la cucina asiatica e quella dell’America Latina, senza dimenticare le prelibatezze regionali del nostro Paese).

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