La programmazione della terza giornata dell’IRISH FILM FESTA 15 ha visto la presenza del concorso per i cortometraggi ma anche una ricchissima serie di eventi che hanno portato la Casa del Cinema in Villa Borghese verso il tutto esaurito già dall’evento clou del pomeriggio: la proiezione di That They May Face The Rising Sun, l’ultimo lavoro del regista – nonché super guest di questa edizione – Pat Collins.
Ma già dal primo pomeriggio, il pubblico presente in sala ha potuto assistere a un momento di grande cinema e di impegno politico con la proiezione di un documentario presentato all’ultima edizione del Galway Film Fleadh e candidato dall’Irlanda per la categoria di Miglior Film Internazionale negli ultimi Academy Awards.
Garry Keane e Brendan J.Byrne sostengono il potente esordio alla regia di Stephen Gerard Kelly in “In The Shadow of Beirut”
Una premessa d’obbligo: questa pellicola era da me attesa con grande impazienza e coinvolgimento, oltre a delle altissime aspettative, fin da quando è stata annunciata all’interno della programmazione di questa edizione dell’IRISH FILM FESTA.
A catturare la mia attenzione, oltre al soggetto trattato dal documentario di Stephen Gerard Kelly, molto probabilmente vi è stato il fatto di aver notato come, a sostenere l’opera prima del regista irlandese, vi fossero il collega Garry Keane e – soprattutto – il produttore Brendan J. Byrne.
In poche parole, due figure della cinematografia contemporanea irlandese per le quali da anni, proprio grazie all’IRISH FILM FESTA, nutro grandissima ammirazione per le loro competenze e per il loro talento, ma soprattutto per il loro indomito coraggio politico nel seguire questioni e fronti che in pochi avrebbero intrapreso.
Se per Brendan J. Byrne si può parlare di un apprezzamento consolidatosi nel tempo e nel corso delle recenti edizioni della FESTA (rimane per me indimenticabile il documentario “Bobby Sands: 66 Days” del 2017), nel caso di Gerry Keane la vera e propria folgorazione è avvenuta in seguito alla visione del durissimo documentario “GAZA”, realizzato insieme a Andrew McConnell nel 2022 e presentato tre anni fa durante la rassegna in streaming IRISH FILM FESTA Silver Stream.
Il documentario presentato in questa occasione si ricollega in qualche modo al lavoro del 2022 e va ad offrire al pubblico una altrettanto brutale finestra sulla situazione socio-politica del Medio Oriente
Nello specifico, le telecamere arrivano in Libano, nei quartieri martoriati di Shabra e Shatila tristemente divenuti famosi per il massacro che avvenne tra il 16 e il 18 settembre 1982 ad opera delle Falangi Libanesi con il supporto diretto d’Israele.
In The Shadow of Beirut è un lavoro durato quattro anni, nel periodo tra il 2018 e il 2022, che vede i due registi in prima linea (Stephen Gerard Kelly si era trasferito a Beirut nel 2015 per ragioni sentimentali) nel documentare le storie di quattro gruppi familiari libanesi che vivono nel luogo, un’area letteralmente abbandonata a sé stessa in cui “vivono” oltre 30.000 abitanti in appena un kilometro quadrato di terra.
È davvero difficile infatti poter parlare di “vita” in un contesto del genere, dove gli abitanti sono prevalentemente discendenti e sopravvissuti di quei profughi palestinesi che vivevano in quei quartieri ai tempi dei fatti del 1982, ma sono anche rifugiati siriani fuggiti dalla guerra o “mezzi libanesi” (le norme libanesi sulla nazionalità sono molto rigide).
Tra tutte queste comunità vi è un elemento comune: per le autorità di Beirut non hanno diritti, non hanno identità, sono apolidi (o – forse – persino peggio).
Condannati a “sopravvivere” in condizioni di assoluto squallore e povertà, in zone in cui le essenziali norme igienico-sanitarie semplicemente non esistono e con livelli di disoccupazione e analfabetizzazione estremamente alti, gli abitanti di Shabra e Shatila trascorrono le giornate cercando di fare tutto quello che è possibile fare per poter badare a sé stessi e ai loro cari. Tutti coloro che sono in grado di poter lavorare, bambini inclusi, si arrangiano con “lavori” di fortuna tra i più disparati con i quali riescono a racimolare cifre mediamente inferiori ai tre dollari statunitensi al giorno.
C’è povertà, come detto, ci sono strade affollate di persone e immerse da detriti, sporcizia, grandi cumuli di spazzatura, senza alcun condotto fognario funzionante. C’è la fame, quella che porta le famiglie che hanno voluto condividere le loro storie con i registi a dover compiere sacrifici immensi per potersi permettere un singolo pasto al giorno.
Ma in uno scenario così desolante, ulteriormente devastato e peggiorato in seguito alla devastante distruzione del porto di Beirut del 2020 (300.000 sfollati, oltre ai morti e ai feriti) e alla pandemia globale del COVID-19, vi è anche – incredibilmente – una luce di speranza: in condizioni così disastrose infatti, il documentario racconta anche il fortissimo senso di comunità e solidarietà che è presente nelle quattro famiglie protagoniste del racconto, la loro grande dignità nel “vivere” ogni singola giornata.
I sogni e le ambizioni – per quanto sia arduo poterle definire tali – di uomini, donne, adolescenti e dei bambini ripresi da Kelly e Keane, che sperano di poter dare un senso alle loro esistenze e, perché no, di poter guardare a un futuro migliore, nonostante “un uccello in gabbia non possa essere libero” (una delle frasi che mi è rimasta più impressa nella visione del documentario).
Crudo nonché esteticamente impeccabile nel cogliere appieno la situazione di estremo degrado dell’area e le emozioni vive dei suoi abitanti, In The Shadow of Beirut è stato un altro colpo al cuore proprio come lo fu la visione di GAZA qualche anno fa.
Sorprende davvero, nel concludere questa lunga riflessione, che questo grandissimo documentario abbia visto la partecipazione – all’interno di una coproduzione tra Irlanda, Irlanda del Nord, Germania e Libano – anche della HiddenLight Productions in qualità di produttori. Il motivo? Lo studio è stato fondato dalla ex first lady statunitense Hillary Clinton assieme alla figlia Chelsea.
Nel descrivere la situazione così disastrata del Medio Oriente, ogni ulteriore commento risulta davvero superfluo.
Il concorso dei cortometraggi premia il lavoro “beige” di Sean Patrick Mullan
In serata, la Casa del Cinema ha visto l’assegnazione del premio per il miglior cortometraggio di questa edizione dell’IRISH FILM FESTA.
Dopo una lunga giornata in cui il pubblico presente ha potuto seguire tutti e quindici i cortometraggi in competizione, riuniti nelle tre categorie Live Action, Documentario e Animazione, e dopo l’attenta valutazione delle due giurie di esperti (una composta dal regista e sceneggiatore Giovanni Robbiano e da Claire McArdle, responsabile delle acquisizioni per Notorious Pictures; l’altra composta da una rappresentanza degli studenti dell’Università degli Studi “Roma Tre”), ad avere la meglio è stato il cortometraggio “Once a Beige Day”, diretto e prodotto dal regista nordirlandese Sean Patrick Mullan.
Il cortometraggio è stato premiato dalla giuria per la capacità di poter raccontare una storia coinvolgente e d’impatto con pochi, semplici ma mirati accorgimenti capaci di far immedesimare il pubblico nei due personaggi presenti senza necessariamente avere troppe informazioni sul loro conto.